martedì 14 dicembre 2010
Piaghe di Calabria: l'emigrazione verso la Germania
Quel giorno di dicembre di 50 anni fa la guerra era un ricordo ancora vivo e l’unità europea poco più che una chimera. L’Italia e la Germania erano alle prese con problemi contrapposti. A Sud delle Alpi, specie nel Mezzogiorno e nelle campagne, c’era un esubero di manodopera, ma mancavano le materie prime. In riva al Reno era in atto il boom economico, ma mancavano le braccia necessarie alla produzione.
L’accordo fu trovato molto velocemente e con un ritorno politico per entrambi i governi. Con la valvola di sfogo dell’emigrazione, la Dc e i suoi alleati gettavano acqua sul fuoco delle rivendicazioni sociali dei contadini meridionali, che in quegli anni erano passati più volte alle vie di fatto, occupando i latifondi e scontrandosi duramente con la polizia e gli eserciti privati degli agrari. Da parte sua il governo Adenauer puntava a introdurre nel paese manodopera a basso costo con cui arginare le rivendicazioni salariali del movimento operaio e sindacale tedesco.
Le condizioni per uno scontro frontale tra i “Gastarbeiter”, come venivano chiamati gli italiani, e i lavoratori autoctoni c’erano insomma tutte, specie se si pensa che l’occupazione tedesca da una parte e il “tradimento” italiano dall’altra erano ricordi vicini e tragici per tutti. E, in effetti, l’accoglienza riservata ai ragazzi che arrivavano dal Sud fu, all’inizio, molto dura.
A rileggere le cronache del tempo ci si trova di fronte ad un’incredibile serie di pregiudizi: l’italiano fannullone che ruba lo stipendio che il tedesco si guadagna onestamente, l’italiano assatanato che molesta le donne tedesche, l’italiano accoltellatore e via farneticando. Della lista dei luoghi comuni faceva chiaramente parte anche l’immagine dell’italiano nemico giurato dell’igiene. Peccato che ben pochi cronisti del tempo avessero l’onestà di raccontare che i “Gastarbeiter” venivano alloggiati, a decine per stanza, in baracche fatiscenti e senza servizi igienici ai margini delle fabbriche. Spesso le stesse in cui avevano penato, fino a 10 anni prima, gli “Zwangsarbeiter”, i lavoratori coatti, anche italiani, schiavizzati dai nazisti.
Sul lavoro le cose non andavano certo meglio. Considerati carne da lavoro dai padroni e denigrati dai colleghi che vedevano in loro degli usurpatori dei posti destinati ai “fratelli dell’Est”, gli italiani potevano consolarsi solo con il rispetto dei minimi contrattuali che il sindacato tedesco era riusciti ad imporre al governo e al padronato per tutelare dal dumping i propri iscritti.
Se è vero che il lento processo di integrazione degli italiani è passato in primo luogo dall’adesione al Dgb (il sindacato unitario tedesco), è anche, però, vero che per anni i funzionari sindacali hanno visto nei “Gastarbeiter” sia dei potenziali crumiri, che, paradossalmente, dei pericolosi agitatori. Il fatto stesso di provenire dal paese con il partito comunista più forte dell’Europa occidentale era motivo di sospetto anche per i militanti del Dgb e della Spd in quegli anni di paranoia maccartista.
Il trattato sulla libera circolazione all’interno dei paesi aderenti alla Cee (1961) permise agli italiani di effettuare i primi ricongiungimenti familiari e di spostarsi a più riprese tra Italia e Germania. Erano le premesse sia per la nascita di una comunità stabile, con tanto di patronati, associazioni religiose e ricreative, che per il fenomeno del pendolarismo tra i due paesi, che, a detta di alcuni studiosi, in questi 50 anni ha interessato oltre 3 milioni di persone.
A differenza degli altri gruppi di “Gastarbeiter”, gli italiani risentirono meno del blocco dell’afflusso di manodopera dall’estero, voluto dal governo federale nel 1973 per fronteggiare la crisi economica. Molti ex “Gastarbeiter”, spesso sposati con cittadine tedesche e padri di bambini nati in Germania, si riciclarono come piccoli imprenditori, aprendo ristoranti, bar, gelaterie e negozi.
Oggi siamo alla terza generazione di italiani in Germania. Gli ex “Gastarbeiter” e i loro discendenti sono diventati parte della società tedesca e hanno contribuito a modificarne le abitudini e lo stile di vita. Chi lo desidera adesso può ottenere la cittadinanza tedesca, senza dover più rinunciare a quella d’origine. Con buona pace della destra, che fino a qualche anno fa con Helmut Kohl si ostinava a ripetere che la Germania non era “un paese d’immigrazione”, quella tedesca è una società multiculturale. E questo anche grazie ai “Gastarbeiter” arrivati dal Sud 50 anni fa.
Eppure i tanti problemi ancora sul tappeto (dall’altissima percentuale di disoccupati tra gli italiani, al disastroso rendimento scolastico dei giovani in una scuola tedesca selettiva e classista, fino al disinteresse per la politica) mettono in discussione i risultati ottenuti sulla via dell’integrazione.
Di : Tommaso Pedicini
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